Come si fa a raccontare un vino quando si fatica a trovare le parole giuste, o quando semplicemente lo si vuole raccontare nel modo più semplice possibile, senza scomodare goudron, polialcoli e terroir?
Nasce da questa domanda, e dalla mia altra grande passione (la prima, almeno in ordine di tempo), la musica, l’idea di raccontare un vino attraverso una canzone.
Proviamo!
Falanghina del Sannio “Svelato”, Terre Stregate, 2014
e
Stand by me, Ben E. King, 1961
Keywords: giro di do, perchénoncihopensatoprima, déjà vu, naturale.
Penso che Ben E. King quando nel 1961 compose Stand by me provò all'incirca quello che si può provare assaggiando questo vino. Una sorta di rivelazione, anzi, di "svelazione"…
La falanghina "Svelato" di Terre Stregate è come il giro di do: annusi, assaggi, ti fermi un attimo, ti batti una mano sulla fronte, e ti dai un po’ dello stupido, perché in fondo era così ovvio, semplice, naturale e vincente mettere questi quattro banalissimi accordi in fila (la mela verde, la pesca, la camomilla, gli agrumi) per creare qualcosa di così bello e buono.
Non perderai tempo a valutare l’armonia della canzone o quella del vino. Non ricercherai un suono di corno francese in sottofondo, o la nota di tamarindo del Dhofar, non ti soffermerai troppo né sul testo né sulla complessità, ma il sorso croccante terminerà, come la canzone, con un sorriso e un senso di déjà vu.
So, darling, stand by me!
Così mi ritrovo in una splendida villa nei pressi di Sarzana, in una serata limpida di agosto con il fresco di settembre (e meno male che si degustava rum, altrimenti avrei avuto bisogno di un pullover!) immerso in un'atmosfera nuova a discutere di distillati e vini con nuovi, ottimi, compagni di bevute!
C'è chi gestisce club di appassionati di Whisky, chi promuove il turismo in liguria, c'è un vulcano coi capelli biondi che non tace un secondo e chi stà già pensando alla prossima degustazione, c'è un narratore d'eccezione in braghe a quadri e bretelle e un magnifico ospite a metà tra Charlie Chaplin e Doc Emmett Lathorp Brown!
Sorrido.
La cena a bordo piscina scorre via leggera tra un vermentino e una ribolla, discutendo di distillerie chiuse per sempre, ricordi e progetti.
Dopo un bicchiere di moscato, di cui non avevo assolutamente bisogno per sentirmi a casa, inizia il momento che tutti stavamo aspettando.
Port Morant Demerara Rum, 15y, 46% vol. Bristol Spirits.
Il primo rum è un Demerara (Guyana) fatto con melassa proveniente dalla piantagione Port Morant, distillato con il più antico alambicco double pot still in legno ancora in funzione, acquistato da Bristol Spirits nel 1999 e invecchiato in patria in botti ex bourbon fino al 2014.
Al naso rimanda subito al legno e alla vaniglia, ma col passare dei minuti emergono sentori di albicocca secca, di panettone e torba. In bocca è morbido ma non dolce, consistente e strutturato. Di una certa finezza (rivalutata un po' col secondo assaggio), ha un finale lungo di chiodo di garofano e anice stellato (ci fa notare Marco), balsamico.
Jamaica Rum 21y, 45% vol. S. Samaroli.
Con la seconda bottiglia si apre un mondo nuovo.
Siamo in Jamaica (personalmente l'isola da cui provengono i rum che preferisco). Nel 1982 Silvano Samaroli (uno dei 10 migliori selezionatori di rum al mondo ci dice Marco, e non si può che essere d'accordo) acquista questo rum e lo porta a invecchiare in Scozia per ben 21 anni prima dell'imbottigliamento nel 2003, il che significano altri 13 anni di ulteriore affinamento in bottiglia!
Bottiglia numerata (360 di 396) e cask numerato (il numero 19) come a voler dare un'identità ben precisa ad ogni bottiglia. Un nome ed un cognome per poterle dare del tu.
Finezza, eleganza e potenza si fondono in modo unico in questo rum, come in un felino, o in un lupo...
Il legno, presente, non è mai invadente. C'è una distinta nota di camomilla e un sottofondo salmastrato dato dal lungo invecchiamento in Scozia. Quasi un Whisky.
Infinito, lascia in bocca una sensazione dolce e sapida allo stesso tempo. Viene voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi coccolare. E così sia!
Prima di affrontare il terzo bicchiere decidiamo di riannusare il primo rimasto vuoto e imparo una lezione importante: il confronto. Nel primo bicchiere è rimasto un persistente profumo di albicocca secca, ma la differenza in finezza, eleganza, corpo e sentori tra i due rum, ora emerge con forza.
Dedicato a quelli che “vorrei un rum, con ghiaccio, grazie, uno qualunque, tanto sono tutti uguali!”.
Jamaica Monymusk Supreme Lord VIII, 25y, 55.7% vol. Rum Nation
Con la terza e ultima bottiglia restiamo in Jamaica (ho l'impressione che anche a Marco quest'isola piaccia un po'...) ma cambiamo imbottigliatore, Rum Nation di Fabio Rossi, personaggio cresciuto tra bottiglie di Champagne Salon e Whisky Laphroaig, che dopo aver fondato la Wilson&Morgan, inizia ad appassionarsi al rum e fa nascere Rum Nation.
E indovinate chi è stato il maestro di Fabio Rossi? Quel S. Samaroli (S. sta per Silvano o San, come volete) di cui sopra...
La particolarità di questa bottiglia sta nell'essere uno Special Barrel di doppio invecchiamento. 10 anni di in botti ex Whisky e 15 in botti ex Sherry Oloroso.
La gradazione è quella della botte. Nessuna diluizione. Cask Strenght.
È etereo (qualcuno di voi giocava con il Crystalball?), esplode immediatamente sia al naso che in bocca, col legno fine, la cannella, il pepe, e ogni sorta di spezia.
Dopo qualche minuto emergono cioccolato, caffè, cuoio, è quasi piccante.
L'invecchiamento in botti di Sherry Oloroso gli donano un finale di confettura di prugne che non se ne va più.
L'anima Jamaicana pungente, colorata e speziata, si fonde perfettamente con quella suadente, morbida e mediterranea dello Sherry in un equilibrio perfetto. Grandissima bottiglia!
Dedicato a quelli che “il rum di melassa è un po' una schifezza, è fatto con gli scarti. Gli unici rum degni sono quelli agricoli”.
La degustazione volge al termine, il freddo e il sonno non vincono la voglia di fermarsi ancora a chiacchierare, a concedersi un bis (o due...), ad accendersi un sigaro e a scambiarsi opinioni e inviti per occasioni future.
Quel che rimane
Del primo bicchiere resta l'albicocca, natalizia e polposa.
Del secondo la camomilla e l'eleganza.
Del terzo l'equilibrio perfetto tra spezie e frutti rossi che scalda il cuore.
Della serata rimangono un luogo incantevole, un ospite prezioso e divertente, un maestro di cerimonie da applausi, nuove belle amicizie, e la voglia di tornare presto sulle Vie del Rum!
Qualcuno ha detto "Ritorno al futuro"?
Come si fa a raccontare un vino quando si fatica a trovare le parole giuste, o quando semplicemente lo si vuole raccontare nel modo più semplice possibile, senza scomodare goudron, polialcoli e terroir?
Nasce da questa domanda, e dalla mia altra grande passione (la prima, almeno in ordine di tempo), la musica, l’idea di raccontare un vino attraverso una canzone.
Proviamo!
Lagrein Rosè, Hofstätter, 2015
e
Road Trippin', Red Hot Chili Peppers, 1999
Prendete un bassista come Michael Peter Balzary, in arte Flea. Di quelli che suonano sempre a torso nudo, pieni di tatuaggi, che si colora i capelli (pochi) di viola o turchese, e che mostra una grinta da mastino e una durezza da punk.
Poi un bel giorno, presumibilmente attorno al 1998, nasce da lui e dalla sua band un qualcosa di insolito, acustico, suadente, malinconico e delicato, come Road Trippin'. Lo spessore, la grinta, li senti che sono ancora lì da qualche parte, un po' nascosti, ma il pezzo è estivo, da falò sulla spiaggia in bermuda e camicia sbottonata, con una chitarra ovviamente...
Poi prendete un vitigno come il lagrein, in Alto Adige, che dà in genere vini rossi corposi, strutturati, decisamente rock, e decidete di lasciarlo macerare a contatto con le bucce per solo un giorno, in modo che solo una piccola parte del colore (e di tutto quanto la buccia porta con sé) finisca poi nel vino. Mettetelo in frigo quanto basta e gustatelo fresco come fosse un bianco estivo e leggero!
La grinta sarà ancora tutta lì, da qualche parte, ma quello che vi stuzzicherà sarà la freschezza, l'amarena scura e polposa diventerà un succo di rose, e vi sembrerà di essere in spiaggia, a cantare "just a mirror for the sun".
Le Marche stanno diventando una delle mie regioni preferite per quanto riguarda i vini.
Dal Verdicchio, al Montepulciano, a produzioni decisamente meno conosciute come la Vernaccia di Serrapetrona (di cui parlerò, promesso), è una regione piena di piacevoli sorprese!
Quella di oggi si chiama Mirum, della cantina Monacesca.
Si tratta di un verdicchio di Matelica (a metà strada tra Perugia e Ancona) emozionante, sublime.
L'occasione è un pranzo domenicale al Cicin Barlichin di Casale Monferrato, che merita una visita per la qualità notevole delle bottiglie sugli scaffali, oltre che per la cucina.
Il pranzo è leggero, quasi un brunch, ma la bottiglia è una di quelle per le grandi occasioni!
Nel bicchiere è giallo dorato brillante, luminoso, davvero splendido, con riflessi che virano verso l'aranciato. La surmaturazione delle uve è evidente già da qui, e già ci si immagina il calore che verrà!
Il naso è complesso e fine. C'è tutto, il miele, la mandorla, gli agrumi, l'albicocca, gli odori dell'orto e la frutta dell'estate, in continua evoluzione. Balsamico.
In un incastro perfetto il sottofondo nel locale intanto passa dai Creedence Clearwaters Revival agli Eagles. Hotel California ha lo stesso calore.
La bocca conferma tutto: è caldo, morbido, fresco e sapido. Forse gli manca un pizzico di freschezza per bilanciare tutta la polpa che si porta appresso. Lunghissimo.
Quando sono ormai arrivato alla fine del cibo e metà bottiglia se n'è andata, per radio passano i Queen, Somebody to love.
Mi alzo felice come un bambino al primo giorno di vacanza.
Bazinga!
Il multitasking umano non esiste.
No, nemmeno per le signore.
Tralasciando casi eccezionali di gente
che lavora a maglia correndo o che risolve il cubo di Rubik con una
pila di libri sulla testa recitando le prime 100 cifre decimali di
pigreco (giuro, esistono), non è possibile fare bene due cose
contemporaneamente, a meno che una delle due non sia così semplice e
automatica come allacciarsi una scarpa.
Questo è il motivo per cui quando si
riceve un sms mentre si cammina, si rallenta il passo per leggerlo, o
per cui quando in macchina si sta cercando una via in un luogo
sconosciuto, si abbassa o si spegne la radio. Siamo un computer con
un processore solo. Quando gli occhi hanno bisogno di più legna, ne
togliamo un po’ dalle orecchie, e vice versa.
Avete poi presente quel giochino che si
fa da bambini? Con una mano si fa un movimento lineare,
destra-sinistra e con l’altra, contemporaneamente, si traccia un
cerchio. Esatto, quello che la maggior parte di voi ora sta tentando
di fare (senza riuscirci). Proprio quello!
Bar Pole, Spotorno, l’unico bar nel
raggio di chilometri nel quale si possono vedere schierate in fila
bottiglie di Caroni, El Dorado, Savannah, Chalong bay, Enmore, e
tanto tanto altro… è giugno inoltrato, fa caldo anche se è
sera.
Nonostante il clima non posso perdere l’occasione e ordino un bicchiere di Saint James 1765.
Nonostante il clima non posso perdere l’occasione e ordino un bicchiere di Saint James 1765.
Appena arriva l'ordinazione mi trovo con carrozzina con pupo urlante a destra, moglie che mi guarda come a
dire “non hai ancora finito?” di fronte.
Cerco di scappare in Martinica per un
quarto d’ora mentre la mano sinistra tenta di far ruotare il rhum
nel bicchiere e la mano destra scuote dolcemente la carrozzina nella
speranza di placare la jena… (il giochino di prima applicato alla
realtà).
Dopo pochi minuti in questa situazione
ho già ripetuto almeno 3 volte la sequenza:
- Sguardo implorante alla moglie: inutile.
- Sguardo molto più implorante al pupo: molto più inutile.
- Sorso di acqua gelata per pulire e svegliare la bocca.
- Sorso di rhum.
Ci rinuncio. È un peccato perché mi
pareva ne valesse la pena, ma proprio non ce la faccio!
Si può bere senza ascoltare quel che
si fa una birra ghiacciata, un prosecco, un mojito, ma non un
distillato liscio. I Commodores possono stare in sottofondo, ma
quando ascolti i Pink Floyd fai quello; il sottofondo è tutto il
resto.
Non mi resta che buttare giù il rhum
come fosse gazzosa, e tornare a occuparmi con tutto me stesso di quel
magnifico fagiolo che giace nella carrozzina e che in modo molto
pacato (?) reclama l’attenzione di mamma, papà, e del resto degli
abitanti di Spotorno.
Non è stata una buona degustazione e
non ho nulla da dire sul Saint James 1765, ma un paio di cose le ho
imparate comunque.
Se si vuole degustare davvero qualcosa,
bisogna fare quello e basta. Serve la bocca, il naso, gli occhi,
servono le mani e il cervello e probabilmente anche un pochino di
cuore, per aprirsi alle emozioni.
Ho imparato che il multitasking umano
non esiste, ma scommetto un caffè che sarà una delle evoluzioni
dell’homo sapiens 2.0.
E ho imparato che
il sorriso di quel pupo nella carrozzina quando sono tornato da lui
vale più di tutte le poche bottiglie di Saint James del 1885 ancora
rimaste in giro per il globo messe insieme.
Vengo accolto alla cantina BioVio dal fido Willy, che preferisce di gran lunga il fresco pavimento della cantina all’afa del cortile, e dal sorriso di Caterina.
Noi, forse meno avveduti di Willy, decidiamo di accomodarci in cortile. Non mi sono ancora seduto che arriva il primo bicchiere accompagnato da pane e olio (anche questo ottimo e produzione BioVio) e il racconto può iniziare…
Marenè: una volta Marixe, altra piccola località in provincia di Albenga dove si trovano alcuni dei vigneti, che diventa Marenè dall’unione di Marixe e Renè (il soprannome di nonno Renato). È il pigato “base”, anche se la definizione non è corretta, spiega Caterina, perché in ogni vino c’è la stessa passione e la stessa cura. Il vino ha un naso di erbe aromatiche e agrumi, forse una lieve nota di miele. In bocca ha una bella struttura, è fresco e sapido, caldo e morbido. Finale non troppo lungo, di mandorla. Un buon inizio da cui si capisce subito che la personalità qui non manca!
La presenza di tanti piccoli vigneti, alcuni a ridosso del mare, altri più nell’interno, e un assemblaggio adeguato fanno in modo che ogni vino mantenga un buon bilanciamento tra salinità e freschezza, tra iodio e salvia.
Si passa all’Aimone, il vermentino di casa che prende il nome da “papà” Aimone Giobatta Vio. E quando Caterina lo racconta, ti fa sentire un po’ di famiglia. È meno strutturato del pigato, ma più profumato, di salvia e mela verde, veramente piacevole, fresco, sapido, ottimo in abbinamento col pesto. Una bottiglia che se servita bella fresca, difficilmente farà in tempo a prendere la temperatura ambiente.
“A vendemmiare siamo sempre gli ultimi” mi racconta, e la parziale surmaturazione delle uve è sempre più presente nel colore, nella struttura e nell’intensità, man mano che andiamo verso i pezzi forti della produzione.
Il primo imbottigliamento fu nel 2000, ma non convinto a pieno “il papà andò dal nonno e gli chiese: papà, com’è questo vino?” “Bon in da bon!” Buono davvero! fu la risposta. Ancora papà e nonno, sempre presenti nel racconto, e ancora questa figlia e nipote che ne parla col sorriso negli occhi. Bello!
Purtroppo sbaglio periodo e il vino è terminato. Ho comunque un assaggio dalla vasca di quello che sarà imbottigliato a luglio (tornerò volentieri!). È logicamente giovane ma mostra già un colore leggermente più carico e un intensità superiore al naso rispetto al fratellino Marené, di salvia e menta. Da riassaggiare quando sarà il momento.
Terminiamo il giro dei bianchi (nel frattempo è quasi finito anche il pane con l’olio) con il Gran Père (qualcuno ha detto “nonno”?). Ma questa volta nonno Renato non centra. È il vino del nonno inteso come il vino così come veniva interpretato un paio di generazioni fa. Vendemmia tardiva, macerazione sulle bucce per una settimana a temperatura controllata, 10 mesi di tonneaux.
Il risultato non può che essere un vino dal colore dorato e carico, un naso più complesso ed evoluto, con la frutta gialla matura, il miele, i fiori gialli e le immancabili erbe aromatiche. In bocca si conferma intenso, sebbene anche in questo caso abbia assaggiato un vino ancora giovane, e con una lieve nota tannica equilibrata che non appesantisce. Persistente, morbido e caldo (supera i 14% vol), è un vino che si berrà più volentieri da settembre, quando le giornate si allungano e la sera si rinfresca un poco.
Ormai è passata quasi un’ora e mezza. Il tempo è volato piacevolmente come il pigato ma non ho il permesso di lasciare la cantina senza prima aver assaggiato anche i tre rossi di famiglia.
Bastiò (rossese, di Bastia), quasi un rosato, semplice e fresco di ciliegia, Gigò (granaccia, il soprannome di un bisnonno) un po’ più intenso al naso e in bocca e un po’ più colorato, e Bacilò (blend rossese + granaccia, anche in questo caso un soprannome che discende da Giobatta), personalmente il migliore dei tre con la freschezza del rossese e quel pizzico di corpo in più della granaccia. Certo che dopo i profumi e la struttura di tutti i bianchi assaggiati è difficile restare impressionati da questi giovani rossi così leggeri e delicati.
Del resto qui in liguria il vino della domenica è sempre bianco!
Un ultimo giro per visitare gli appartamenti dell’Agriturismo del Pigato (riesco ancora a fare le scale senza problema alcuno) perfettamente ristrutturati che immagino in più di un’occasione abbiano ristorato l’equilibrio di qualche onesto bevitore e sono pronto a partire.
Un delizioso pomeriggio, una bellissima accoglienza, fresca e attenta, ottimi assaggi e la voglia di tornare per dire anch’io bon in da bon!